Diritti d'autore © Studio Associato Pironti Laratro 2018
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Il nostro Studio - nell’ambito di un procedimento “ex rito Fornero” - ha già all’esito del giudizio sommario di prime cure ottenuto un’importante vittoria a tutela dei diritti di un dipendente funzionario di banca che si era visto licenziare per motivi disciplinari fondati su una serie di asseriti addebiti addossati al lavoratore.
Ebbene, come da sua tesi originaria esposta negli atti processuali, lo Studio è riuscito non solo a far emergere in giudizio che taluni di tali addebiti non si erano mai verificati, ma anche a far accogliere l’argomentazione difensiva per cui alcuni di essi avrebbero dovuto essere sanzionati non con il licenziamento, ma con una sanzione conservativa (non diretta, cioè, ad espellere il lavoratore dall’azienda), così riuscendo ad ottenere, per il nostro assistito, la tutela della reintegrazione in sevizio prevista dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Il lavoratore è stato, quindi, reintegrato in servizio e si è visto corrispondere il danno commisurato a tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di reintegra (completamente pagate dall’azienda).
Il provvedimento è stato confermato sia in sede di opposizione che in sede di appello.
Ordinanza Tribunale Milano del 12.11.2021.pdf
Sentenza C.A. Milano n. 734_2022.pdf
Sentenza Tribunale Milano n. 1319_2022.pdf
Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria a favore di una lavoratrice addetta ad un bar (con un solo dipendente) la quale, dopo essere stata molestata da taluni clienti e dopo avere reagito alle molestie, si era vista dapprima aggredire da uno di tali clienti (che le procurava ferite fisiche) e poi licenziare dall’azienda per il solo fatto di avere reagito a tali molestie.
Ebbene, lo Studio è riuscito a far accogliere al Giudice del Lavoro la tesi per cui avendo l’azienda non difeso la lavoratrice da tali molestie, ma licenziato la quest’ultima per effetto di reazioni intervenute avverso le stesse molestie, aveva così e di fatto avallato, facendolo proprio, il grave comportamento dei suoi avventori ed aveva per ciò solo posto in essere un licenziamento discriminatorio (come è quello conseguente a molestie sessuali).
Pertanto, all’esito del giudizio, accertata la discriminatorietà del licenziamento della lavoratrice nostra assistita, il Giudice ha disposto la reintegrazione in servizio della lavoratrice stessa (come previsto dal decreto legislativo n. 23/2015 in tema di licenziamento di tale categoria - nonostante non si fosse in presenza di un contesto produttivo con più di 15 dipendenti) e la condanna alpagamento in favore della nostra assistita di tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di reintegrazione in servizio.
Sentenza Tribunale Bergamo n. 711_2022.pdf
Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria a tutela dei diritti di un dipendente che si era visto licenziare per motivi disciplinari fondati sull’asserita assenza sul luogo di lavoro di 5 giorni consecutivi, circostanza che, ove provata, per quanto previsto dalla contrattazione collettiva avrebbe dato all’azienda appunto la possibilità di licenziare il lavoratore per giusta causa.
Tuttavia, e la nostra tesi è stata accolta dal Giudice del Lavoro, si è dimostrato che, in realtà, l’azienda aveva contestato al nostro assistito la mancata presentazione in servizio soltanto per 4 giorni lavoratori (siccome espressamente indicati nella relativa lettera di contestazione disciplinare) ma non anche per il 5 giorno addotto quale ulteriore ed aggiuntiva giornata di assenza.
E’ stato, pertanto, appositamente sollevato il vizio sia procedurale, che sostanziale del licenziamento, dal momento che se da un lato è vero che il datore di lavoro può fondare il licenziamento solo su addebiti precedentemente e specificamente contestati, dal’altro lato è vero che nel caso di specie non si erano contestate 5 assenze ma solo 4 e pertanto non ricorreva l’ipotesi di giusta causa prevista dal contratto collettivo richiamato dalla stessa azienda per fondare il recesso.
Il Giudice del lavoro ha, pertanto, annullato il licenziamento ed ha condannato l’azienda a risarcire il danno subito dal lavoratore sulla base dei parametri previsti dalla legislazione applicazione (il decreto legislativo n. 23/2015 per le aziende con meno di 15 dipendenti).
Sentenza Tribunale Pavia n. 53_2021.pdf
Il nostro Studio ha ottenuto una importante vittoria ancora una volta a tutela di una lavoratrice addetta a mansioni di cameriera in un bar del milanese.
In particolare, la nostra assistita era stata assunta con un contratto a termine, con inquadramento in un livello contrattuale inferiore a quello dovuto per le mansioni svolte, non si era vista pagare taluni stipendi durante l’esecuzione del rapporto ed era stata licenziata oralmente dal proprio datore di lavoro.
Il nostro Studio aveva agito in giudizio sia per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato, lamentando l’illegittimità del ricorso al contratto a termine in virtù del fatto che nel caso di specie non esisteva alcun contratto di lavoro per ciò sottoscritto dalla lavoratrice, sia per ottenere l’inquadramento nel corretto livello previsto dal contratto collettivo nazionale per le mansioni svolte, sia per ottenere il pagamento degli arretrati retributivi, sia, infine, per ottenere l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro, la quale, sebbene trattandosi di un’azienda con meno di 15 dipendenti, le spettava (per espressa previsione di legge: l’articolo 2 del decreto legislativo n. 23/2015) in virtù del fatto che l’allontanamento dal posto di lavoro non era stato disposto per iscritto ma solo a parole.
Il Giudice del lavoro, in accoglimento delle nostre tesi, ha integralmente accolto il ricorso della lavoratrice, dichiarando l’assunzione a tempo indeterminato, inquadrando la lavoratrice nel superiore livello richiesto, prevedendo la condanna a pagarle gli arretrati retributivi richiesti ed annullando il licenziamento orale con condanna alla reintegrazione in servizio, di cui la lavoratrice potrà usufruire nonostante lavorasse in un’azienda al di sotto dei 15 dipendenti.
Sentenza n. 2214_2021 Tribunale di Milano.pdf
Il nostro Studio è riuscito a “ribaltare” in secondo grado, a favore del lavoratore assistito, due provvedimenti che nel giudizio di primo grado “Fornero” (che, come noto, si articola in due distinti procedimenti: il primo di natura sommaria ed il secondo di opposizione ed a cognizione piena) avevano invece rigettato il ricorso del nostro assistito.
In particolare, il lavoratore era stato licenziato per aver proferito, ad avviso del datore di lavoro, frasi ingiuriose, seppure qualificate come minacce, verso il dirigente dell’azienda appaltante e per avere, sempre ad avviso dell’azienda, tenuto comportamenti aggressivi verso due impiegate dell’azienda datrice di lavoro.
La peculiarità del caso concreto, tuttavia, era caratterizzata sia dal fatto che il lavoratore attraversava un difficile momento psico-fisico (tanto che era in cura presso centri specializzati nel trattamento dei disturbi che lo affliggevano), sia dal fatto che egli mai prima di allora commesso alcun illecito disciplinare, circostanze, queste, sulle quali si era basata la nostra difesa quanto meno in merito alla questione per cui, anche ove ammessa la sussistenza dei fatti imputati, il licenziamento era comunque da ritenersi illegittimo perché sproporzionato in relazione, appunto, sia all’assenza di precedenti disciplinari, sia alla mancanza dell’elemento intenzionale/soggettivo (posto che sotto il profilo medico/psichiatrico il lavoratore non era all’epoca in grado di contenere taluni stati d’animo).
Ebbene, come anticipato, dopo due provvedimenti contrari, in secondo grado la Corte d’Appello ha invece accolto l’impianto difensivo in questione, ed ha accertato l’illegittimità del licenziamento per la sua sproporzione, nonché, applicata la tutela risarcitoria piena di cui all’articolo 18, comma quinto, della legge n. 300/1970, condannato l’azienda a risarcire il lavoratore con versamento in suo favore di una cospicua somma indennitaria.
Sentenza n. 168_2021 Corte Appello Brescia.pdf
Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria a tutela di un lavoratore impiegato come addetto alla sicurezza da un’agenzia specializzata in questo servizio fornito presso esercizi commerciali gestiti dalle varie società committenti.
In particolare, il nostro assistito, che aveva lavorato per l’agenzia datrice di lavoro continuativamente per molti anni, era stato inquadrato con un contratto di lavoro autonomo ed era stato improvvisamente estromesso dal servizio per effetto di una semplice comunicazione verbale.
Si è quindi provveduto ad impugnare sia i contratti di lavoro autonomo, chiedendo al Giudice di accertare che tra le parti era in realtà sussistito un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall’origine, sia il licenziamento subito, in quanto non intimato in forma scritta e come tale assoggettato alla tutela della reintegrazione in servizio prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Il Giudice adito, in accoglimento delle nostre tesi difensive, ha accolto il ricorso del lavoratore da un lato, appunto, dichiarando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato (ed annullando i contratti di lavoro autonomi sottoscritti invece di quest’ultimo), e dall’altro lato disponendo la reintegrazione in servizio del nostro assistito, il quale ha ora la possibilità di godere di un posto di lavoro fisso (con possibilità di recuperare anche tutti i contributi previdenziali dovuti per tutti gli anni di rapporto in cui non erano stati versati).
Ordinanza del 09.06.2021 Tribunale di Milano.pdf
La sentenza in questione è di notevole importanza non solo e non tanto per il merito della vicenda, quanto, invece e soprattutto, per i principi processuali che essa afferma.
Nella causa in questione, il lavoratore - socio di cooperativa ed addetto ad attività di assistenza e di cura alla persona degli anziani nel centro di accoglienza (RSA) in cui egli operava - era stato licenziato per avere asseritamente istigato alcuni suoi colleghi iscritti alla sigla sindacale di cui era delegato, in particolare per il tramite di affermazioni contenute in un messaggio whatsapp loro inviato, a prendere in considerazione la possibilità di non rendere più la prestazione lavorativa se questa avesse sforato il previsto orario di lavoro notturno.
Ragione, questa, per cui la cooperativa aveva provveduto sia al suo licenziamento sia alla sua espulsione dai ranghi sociali (estromettendolo dalla qualità i socio).
La causa, dunque, non era di agevole portata soprattutto per via del fatto che, come noto, per il lavoratore di cooperativa che viene sia licenziato che estromesso dai ranghi sociali non è scontata la possibilità di poter ottenere la reintegra sul luogo di lavoro (e ciò sia per come è formulata la normativa di cui alla legge 142/01, sia per una sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione del 2017 da cui, a prima lettura, sembrerebbe trarsi tale impossibilità), pure dubitandosi, da parte di alcuni interpreti, che sia il Giudice del Lavoro a doversi pronunciare su una simile controversia e sostenendosi che invece debba essere il Tribunale delle Imprese a doverlo fare.
E tuttavia, il nostro Studio non solo è riuscito a far ribadire il principio processuale per cui in cause in cui l’esclusione del socio ed il suo licenziamento siano motivati sullo stesso presupposto di fatto è il Giudice del Lavoro a doversi pronunciare sull’impugnazione di entrambi, ma è riuscito anche a far disattendere quanto incidentalmente affermato dalla Suprema Corte di Cassazione nella sopra richiamata sentenza ed a far affermare il principio per cui nel caso in cui tanto il licenziamento, quanto l’esclusione da socio del lavoratore interessato siano considerati infondati ed illegittimi, la tutela non può che essere quella della reintegrazione in servizio (sulla base della corretta interpretazione da darsi alla stessa legge 142/01 per come argomentata e ricostruita proprio nel nostro ricorso).
Nel merito, l’infondatezza dei provvedimenti di espulsione datoriale è stata ricavata dal fatto che al concreto contenuto dei messaggi del nostro assistito non poteva in alcun modo essere attribuito il carattere dell’istigazione a commettere illeciti.
Tribunale di Milano 13.03.2020.pdf
Sempre in relazione a più licenziamenti intimati ad un gruppo di lavoratori di call-center nell’ambito di un cambio di appalto che aveva interessato il datore di lavoro, siamo riusciti da un lato, in via generale, a far affermare il principio per cui i lavoratori licenziati in tale contesto ben possono far valere le loro ragioni contro l’azienda che cessa di gestire l’appalto e che per ciò li estromette dal posto di lavoro a prescindere dalla loro assunzione da parte dell’azienda che subentra nella gestione dell’appalto, e dall’altro lato, nel particolare caso di specie, a far rilevare al giudice sia la violazione da parte dell’ex datore di lavoro all’obbligo di c.d. “repechage”, sia che tale violazione risultava indiscutibilmente e dai documenti di causa, così ottenendo l’applicazione della tutela massima, ovvero la reintegrazione in servizio dei nostri assistiti illegittimamente licenziati.
Tale ordinanza è, a quanto consta, la seconda resa nell’ambito di licenziamenti intimati per cambi appalti nel settore delle Telecomunicazioni, in cui il nostro Studio, nonostante la particolare normativa  di legge e di contratto collettivo dettata a sua regolamentazione sembrava lasciare pochi spazi a riguardo, così come nel precedente caso dei colleghi dei lavoratori in esame è comunque riuscito a far applicare e far confermare principi giurisprudenziali elaborati per gli altri settori di produzione ottenendo, appunto, la massima tutela ad oggi prevista dall’ordinamento (quella della reintegrazione in servizio con pagamento delle retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione).
ordinanza trib. milano 28.02.2020.pdf
L'opposizione presentata dall'azienda è stata rigettata e l'ordinanza di prime cure confermata con la sentenza che qui sotto vi alleghiamo.
sentenza n. 1222 del 28.08.2020.pdf
Abbiamo assistito due lavoratori già impiegati come team leader in un call-center i quali, in seguito ad un cambio di appalto che ha interessato la società loro datrice di lavoro (che nella gestione del relativo servizio è stata sostituita da altra società che le è subentrata), sono stati licenziati insieme ad altri loro colleghi e non hanno in seguito voluto essere riassunti da tale società subentrante che proponeva condizioni contrattuali inferiori rispetto a quelle del precedente rapporto.
Nonostante ed a prescindere dalla normativa di legge e di contratto collettivo prevista nel settore delle telecomunicazioni, la quale, ad una prima lettura, sembrava dare ai lavoratori interessati esclusivamente la possibilità di richiedere l’assunzione nei confronti dell’impresa subentrante e non anche tutele nei confronti del datore di lavoro/impresa uscente dall’appalto, abbiamo comunque proceduto ad impugnare i licenziamenti nei confronti di quest’ultima sia perchè disposti in violazione della normativa sui licenziamenti collettivi (la legge 223/91), sia perché comunque disposti in violazione della normativa sui licenziamenti individuali per motivi economici.
Ebbene, con un provvedimento che a quanto consta è il primo emanato nel settore delle telecomunicazioni abbiamo fatto affermare il principio per cui anche in tale settore (quando i licenziamenti siano almeno 5) deve applicarsi la procedura per i licenziamenti collettivi di cui alla legge 223/91 per tutti i lavoratori licenziati dall’impresa uscente e non assunti dall’impresa subentrante, e ciò a prescindere dal fatto che l’assunzione di tali lavoratori da parte dell’impresa subentrante derivi da una loro scelta.
Affermato tale principio, e valutata la non applicazione nel caso di specie della procedura in questione, il Giudice ha dichiarato illegittimi i licenziamenti dei nostri assistiti ed ha disposto la loro reintegrazione in servizio, con pagamento del risarcimento del danno previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e costituito da tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento alla data di effettiva reintegrazione.
ordinanza trib. milano 16.12.2019.pdf
L'opposizione presentata dall'azienda è stata rigettata e l'ordinanza di prime cure confermata con la sentenza che qui sotto vi alleghiamo.
sentenza n. 788 del 15.06.2020.pdf
Al venditore di pacchetti viaggio licenziato per una <<ristrutturazione aziendale che prevede la necessità di abbandonare il progetto iniziale in quanto non produttivo e non vantaggioso per l’azienda>> abbiamo fatto ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento, il risarcimento del danno ed il rimborso delle spese legali. In particolare, il Giudice ha affermato che:
- <<ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è onere del datore di lavoro provare, non solo la ristrutturazione organizzativa dedotta a giustificazione del recesso e l’incidenza della medesima sulla posizione ricoperta in azienda dal lavoratore licenziato, ma anche l’inutilizzabilità di quest’ultimo in altro settore aziendale>>;
- <<In considerazione della anzianità di servizio di due anni della ricorrente, del numero dei dipendenti della convenuta e della giustificazione radicalmente inesistente del recesso, si ritiene equo riconoscere in favore del ricorrente una indennità pari a otto mensilità>> in applicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 194 dell'8.11.2018.
Al barista e cameriere che ha lavorato per un due anni “in nero” prima di essere licenziato con un sms a causa di un <<brusco calo di lavoro>>, abbiamo fatto ottenere l’accertamento della costituzione del rapporto di lavoro, le differenze retributive ed il tfr maturato, nonché il risarcimento del danno per l’illegittimo licenziamento pari a 5 mensilità - in applicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 194 dell'8.11.2018, oltre il rimborso delle spese legali. Rispetto al licenziamento intimato via sms, il Giudice ha affermato che lo stesso: <<sia assimilabile a un licenziamento intimato via telefax e soddisfi il requisito della forma scritta, stabilito dall’art. 2 della legge 604 del 1966>>.
Con una importante pronuncia, il nostro Studio è riuscito ad ottenere l’annullamento di un licenziamento (ed il relativo risarcimento del danno), intimato ad un lavoratore accusato di aver simulato uno stato di malattia sulla base del semplice presupposto per cui, durante la malattia, aveva postato su facebook la propria partecipazione ad un concerto, circostanza da cui il datore di lavoro aveva dedotto che non fosse davvero ammalato e per ciò solo meritevole della massima sanzione del licenziamento.
Lo Studio, richiamando precedenti sentenze favorevoli ai lavoratori, già ottenute in casi analoghi, è riuscito ad ottenere l’annullamento del licenziamento facendo accogliere la propria tesi argomentativa per cui, siccome lo stato di malattia in tanto può dirsi tale in quanto accertato da un medico, e cioè dall’unico soggetto competente per legge a stabilire se si è malati oppure no, il datore di lavoro, tanto meno senza avere mai disposto visite fiscali ed avere mai conosciuto quale fosse la relativa diagnosi, non poteva permettersi di licenziare una persona sulla base dei comportamenti da questa tenuti durante la malattia.
Ogni persona è e resta sempre libera di adottare i comportamenti che ritiene, specie se compatibili con la patologia di cui soffre.
L’importante principio affermato in questa sentenza è, quindi, quello per cui il datore di lavoro non è un medico, e pertanto non può trarre a suo vantaggio conclusioni sulla presunta inesistenza di una malattia da comportamenti del lavoratore che non si pongono in alcun contrasto con la diagnosi di cui egli stesso è stato oggetto nell’accertamento medico della malattia.
Tribunale di Milano 19.06.2018.pdf
A tre lavoratori licenziati nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo abbiamo fatto ottenere la reintegra nel posto di lavoro, il risarcimento del danno e la condanna del datore di lavoro al pagamento delle spese legali per effetto dell’accertamento che il licenziamento era avvenuto in violazione dei criteri di scelta tra i lavoratori da licenziare.
Difatti, del tutto illegittimamente la scelta del datore di lavoro si era concentrata invece che su tutta l’azienda, ovvero su tutti gli addetti a mansioni fungibili di tutti gli appalti in corso sul territorio italiano, ai soli dipendenti che non si erano resi disponibili ad una modifica dell’orario di lavoro, seppure richiesta dall’azienda appaltante.
In occasione ed in vista della Manifestazione EXPO, un lavoratore è stato assunto per 4 mesi per svolgere mansioni di addetto alle vendite in un supermercato che di lì a poco sarebbe stato aperto all’interno dell’Area EXPO.
Ebbene, mentre era addetto ad un altro supermercato, e quindi prima di essere assegnato a quello all’interno dell’Area EXPO viene licenziato perché la Questura di Milano non ha rilasciato in favore di questo lavoratore il c.d. pass per accedere agli spazi EXPO, e quindi - secondo quanto sostenuto dal datore di lavoro – per <<sopravvenuta impossibilità allo svolgimento della prestazione dedotta nel contratto>>.
Il Giudice di primo grado ha rigettato in toto il ricorso del lavoratore, mentre in appello questo ha trovato parziale accoglimento.
La tesi della discriminatorietà del licenziamento non è stata accolta neppure dalla Corte d’Appello in base al ragionamento per cui <<non solo la mancata concessione del pass non rientra tra i pur numerosi fattori di rischio tipizzati dalla normativa antidiscriminatoria – anche europea… ma soprattutto perché tale mancato rilascio, non è dovuto ad un comportamento rientrante nella sfera di disponibilità del datore di lavoro>>.
Mentre è stata ritenuta inidonea a giustificare il licenziamento la motivazione dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione atteso che il datore di lavoro sapeva fin dal momento dell’assunzione del lavoratore che sarebbe stato necessario il rilascio del pass dalla Questura, per cui non di sopravvenuta impossibilità doveva parlarsi ma semmai di prevedibile impossibilità.
Il licenziamento è stato quindi dichiarato illegittimo e, come conseguenza del fatto che il lavoratore aveva un contratto a tempo determinato, gli è stato riconosciuto un risarcimento pari alle retribuzione perse dalla data del licenziamento fino al termine previsto del contratto, oltre al rimborso delle spese legali.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore è stato dichiarato illegittimo dal Giudice perché il datore di lavoro non ha provato:
Abbiamo assistito un insegnante, dipendente da un’agenzia di somministrazione che la somministrava ad una società presso la quale l’insegnate svolgeva attività di docenza e sostegno in materie umanistiche ad alunni con difficoltà di apprendimento.
L’agenzia di somministrazione ha licenziato l’insegnante a causa di un asserito calo di commesse e fatturato nonché dei ritardi di pagamento accumulati dalla società utilizzatrice nei suoi confronti.
 Il Giudice – verificato che il dedotto complessivo calo di fatturato e delle commesse non risultava provato al pari dell’impossibilità di evitare il licenziamento dell’insegnante con assegnazione ad altri clienti ovvero ad altre opportunità lavorativa nella disponibilità dell’agenzia - ha dichiarato illegittimo il licenziamento e condannato l’agenzia al risarcimento del danno e al pagamento delle spese legali. 
La sentenza di primo grado è stata confermata in tutti i successivi gradi di giudizio.
Sentenza n. 1811_2017 Corte Appello di Milano.pdf
Sentenza Cassazione 11425_2021.pdf
Al dipendente assunto con contratto a termine, una volta fatta accertare l'illegittimità del termine e la conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dall’inizio, abbiamo fatto ottenere la reintegra nel posto di lavoro perché licenziato oralmente, tutte le retribuzioni dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra nonchè il rimborso delle spese legali.
La Corte di Cassazione, confermando la nostra tesi difensiva, ha nel caso in esame respinto il ricorso proposto dal datore di lavoro contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano che ci aveva dato ragione, confermando la Sentenza di secondo grado, ed in particolare l'argomentazione per cui (sulla base della normativa pre-riforma Fornero che si applicava al caso di specie) la comunicazione di licenziamento al dipendente e la comunicazione di chiusura della procedura di licenziamento collettivo dovevano avvenire contestualmente, ossia contemporaneamente e non a distanza di tempo l’una dall’altra. La Corte d’Appello di Milano aveva, infatti, ritenuto illegittimo il licenziamento collettivo intimato al dipendente in quanto tra la lettera di licenziamento comunicata al nostro assistito (addetto alla biglietteria dell’Aeroporto di Malpensa per una Multinazionale/Compagnia Aerea) e la lettera di applicazione dei criteri di scelta di fine procedura comunicata alle organizzazione sindacali erano, senza alcuna ragione, passati oltre sette giorni, ed aveva dunque disposto il diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro, nonché il diritto a ricevere il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perse dalla data del licenziamento alla data di reintegrazione in servizio.
A due lavoratrici prima costrette a dimettersi e poi riassunte da altra società, che le avevano licenziate per mancato superamento del periodo di prova, abbiamo fatto ottenere:
Sentenza n. 3808_2013 Tribunale Milano.pdf
Il Giudice ha accertato sia in primo grado sia in appello che il licenziamento intimato alla lavoratrice era illegittimo perché non poteva ritenersi sufficiente la prova del giustificato motivo oggettivo rappresentato dal calo di commesse, dall’insolvenza dei debitori se supportata solo da documenti “a campione” (tra cui gli estratti libri iva solo di alcuni mesi) non in grado di fornire un quadro trasparente e completo della situazione di difficoltà economica che il datore di lavoro adduceva come motivo di licenziamento.
Alla lavoratrice abbiamo quindi fatto ottenere il risarcimento previsto in base alla sua anzianità di servizio dal D.Lgs. 23/2015 in materia di “tutele crescenti”.
Alla dipendente licenziata, il cui licenziamento è stato poi revocato oltre il termine dei 15 giorni previsto dalla legge, abbiamo fatto ottenere la reintegra nel posto di lavoro, il risarcimento del danno e la condanna del datore di lavoro a pagarle le spese legali.
Difatti, non solo la revoca non ha potuto sortire effetto perché intervenuta tardivamente senza accettazione della lavoratrice, ma il Giudice ha stabilito che non vi fosse nesso di causa tra la motivazione addotta (ossia la perdita dell’appalto) ed il licenziamento della dipendente atteso che non era stata data la prova che <<il lavoro della ricorrente si esaurisse in quello svolto presso l’appalto in esame e che la perdita dell’appalto causasse direttamente la necessità di sopprimere la posizione della ricorrente>>.
Al dipendente licenziato “in tronco” per motivi disciplinari abbiamo fatto ottenere in primo e secondo grado la dichiarazione di illegittimità del licenziamento con conseguente diritto a ricevere l’indennità sostitutiva del preavviso e un’indennità risarcitoria pari a 6 mensilità.
Il lavoratore era stato licenziato sulla base dei sospetti che il datore di lavoro nutriva sulla genuinità della sua assenza per malattia, senza essere stato sottoposto né a visita medico-fiscale né ad un accertamento tecnico preventivo.
Sentenza n. 330_2015 Tribunale di Milano.pdf
Alla dipendente addetta alle pulizie presso una Struttura sanitaria/socio-assistenziale, licenziata dalla Cooperativa per giustificato motivo oggettivo a causa della “progressiva diminuzione degli ospiti all’interno della struttura”, abbiamo fatto ottenere un’indennità risarcitoria pari a 14 mensilità oltre la condanna della Cooperativa al pagamento delle spese legali. In particolare, il Giudice ha accertato il mancato adempimento da parte della Cooperativa dell’obbligo di repechage, ovvero di verificare che non vi fossero altre mansioni nella quali poter utilmente ricollocare la lavoratrice, così da evitarle il licenziamento.
A due lavoratori licenziati per assenza ingiustificata nonostante stessero scioperando abbiamo fatto ottenere (con ordinanza confermata anche in sede di opposizione) l’accertamento della nullità dei licenziamenti perché ritorsivi e la conseguente condanna dell’azienda a reintegrarli nel posto di lavoro, a corrispondergli tutte le retribuzioni perse dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegrazione in servizio e a rimborsargli le spese legali.
Nello specifico, lo sciopero era stato indetto perché l’azienda aveva deciso unilateralmente di non pagare più come straordinario il lavoro prestato nelle giornate domenicali ma di concedere dei riposi compensativi durante la settimana. L’organizzazione sindacale ha pertanto indetto uno sciopero dal lavoro festivo e domenicale fino a che non si sarebbe raggiunta una soluzione condivisa. Tuttavia, alcuni lavoratori che hanno scioperato in alcune giornate domenicali si sono visti contestare l’assenza ingiustificata e poi addirittura comminare il licenziamento.
Il Giudice nel giungere a dichiarare nulli i licenziamenti ha stabilito alcuni importanti principi:
- <<L’unico dato rilevante, sul punto, è che fosse stato proclamato uno stato di agitazione sindacale per contestare la richiesta di svolgere prestazioni lavorative in orario domenicale e che l’azienda fosse perfettamente consapevole di tale situazione>>;
- <<Il fatto che la datrice di lavoro non considerasse legittime le rivendicazioni poste alla base di tale proclamazione…è del tutto irrilevante ai fini della valutazione circa la legittimità dell’indizione dello sciopero e la legittimità della partecipazione dei lavoratori… ciò che conta è che l’astensione totale o parziale dal lavoro sia collettivamente concordata, a prescindere dall’effettiva partecipazione numerica>>;
- <<una volta proclamato lo sciopero non vi è alcun obbligo da parte del lavoratore di comunicare espressamente al datore di lavoro che la sua assenza è da ricollegarsi allo sciopero; al contrario, qualora egli sia assente per altre ragioni – per esempio per malattia – è suo onere comunicarlo al datore di lavoro>>.
La sentenza resa in fase di opposizione è stata confermata anche dalla Corte d'Appello di Milano all'esito del reclamo proposto dal datore di lavoro.
Corte d'Appello Milano 23.03.2016.pdf
Abbiamo proposto ricorso per decreto ingiuntivo contro un’azienda che non aveva corrisposto al dipendente l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto d lavoro, a seguito dell’esercizio dell’opzione.
Una volta ottenuto e notificato il decreto ingiuntivo, l’azienda ha fatto opposizione, opposizione che il Giudice ha rigettato osservando in particolare che:
- <<La sentenza di primo grado che ha riconosciuto il diritto alla reintegra e dal quale scaturisce il diritto ad esercitare l’opzione del pagamento delle 15 mensilità in luogo della reintegra, è immediatamente esecutiva, a nulla rilevando l’appello proposto nelle more>>;
- <<Il termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza non può essere riferito alla comunicazione del deposito delle motivazioni, laddove vi è un dispositivo, come nel caso in esame letto in data 28.10.2013 come risulta dalle motivazioni depositate in data 6.11.2013. Se si seguisse tale interpretazione si finirebbe per ledere il diritto del lavoratore, il quale, per esercitare l’opzione, dovrebbe attendere il deposito della motivazione che potrebbe seguire anche di diversi mesi la lettura del dispositivo con il quale è stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento>>.
Ad un lavoratore licenziato prima che l'azienda venisse trasferita ad altra società abbiamo fatto recuperare i crediti che aveva maturato nei confronti dell'azienda cedente - anche per effetto dell'accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli - con condanna al pagamento di tutti i crediti maturati da parte della cessionaria.
L’azienda cedente, dopo aver perso la causa di licenziamento ed essere stata condannata a pagare un risarcimento al lavoratore, si era spogliata di ogni suo bene per rendere impossibile al lavoratore il soddisfacimento del proprio credito.
Alla dipendente di una casa di riposo, addetta alle pulizie, licenziata nell'ambito di una cessazione di appalto, abbiamo fatto ottenere, al 3° grado di giudizio, l'accertamento dell'inefficacia del licenziamento e la condanna del datore di lavoro a reintegrarla in servizio e a pagarle tutte le retribuzioni perse dal licenziamento all'effettiva ripresa del servizio.
In particolare, la Corte d'Appello di Salerno - Sez. Lavoro - ha stabilito che:<< la giurisprudenza di legittimità delineatasi in subiecta materia ha precisato che, ove il contratto collettivo preveda, per l’ipotesi di cessazione dell’appalto cui sono adibiti i dipendenti, un sistema di procedure idonee a consentire l’assunzione degli stessi, con passaggio diretto e immediato, alle dipendenze dell’impresa subentrante, a seguito della cessazione del rapporto instaurato con l’originario datore di lavoro e mediante la costituzione ex novo di un rapporto di lavoro con un diverso soggetto, detta tutela non esclude, ma si aggiunge, a quella apprestata a favore del lavoratore nei confronti del datore di lavoro che ha intimato il licenziamento, con i limiti posti dalla legge all’esercizio del suo potere di recesso, non incidendo sul diritto del lavoratore di impugnare il licenziamento intimatogli per ottenere il riconoscimento della continuità giuridica del rapporto originario (…) E’ di tutta evidenza, quindi, che i soli rapporti di lavoro ai quali non è applicabile l’art. 24 sono quelli transitati, senza soluzione di continuità, al nuovo appaltatore e non anche i rapporti in esubero presso l’impresa uscente e che non siano approdati nell’organico di quella subentrante>>.
Al conducente di mezzi di raccolta rifiuti licenziato per cessazione dell'appalto al quale era addetto abbiamo fatto ottenere la reintegra nel posto di lavoro, tutte le retribuzioni perse dalla data del licenziamento alla reintegra ed il rimborso delle spese legali. Abbiamo infatti chiesto ed ottenuto che venisse accertato che le attività che svolgeva il lavoratore licenziato non rientravano nell'appalto cessato con l’evidente conseguenza che la cessazione dell’appalto non poteva in alcun modo giustificare il suo licenziamento.
Trib. Milano 20.11.2014.pdf
All’educatrice licenziata per mancato superamento del periodo di prova abbiamo fatto ottenere l’accertamento della nullità del patto e la condanna del datore di lavoro:
- a reintegrarla in servizio;
- a corrisponderle tutte le retribuzioni non percepite:
- a rimborsarle le spese legali.
La sentenza di primo grado è stata confermata anche in appello.
Ad un gruppo di lavoratrici licenziate nell’ambito di un licenziamento collettivo abbiamo fatto ottenere l’accertamento della illegittimità dei licenziamenti loro intimati. I Giudici – nelle tre fasi di giudizio svoltesi – hanno infatti ritenuto <<illegittima la limitazione dell’ambito di scelta dei lavoratori da licenziare in base ai criteri di legge alla sola unità produttiva cessata>>, precisando che: <<tale limitazione si giustifica solo in quei casi, nei quali esso sia caratterizzato da autonomia e specificità delle professionalità interessate e dalla loro infungibilità rispetto alle altre>>.
Alla commessa licenziata per giusta causa per avere accorpato in un unico scontrino tre precedenti transazioni allo scopo di vincere la gara indetta dal datore di lavoro per lo “scontrino eccellente”, abbiamo fatto riottenere il posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro a pagarle tutte le retribuzioni perse dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra.
Il Giudice ha dichiarato illegittimo il licenziamento perché sanzione non proporzionata rispetto al fatto commesso, in particolare precisando che:<< la condotta contestata alla ricorrente si inserisce in un contesto particolare, rappresentato dalla partecipazione della dipendente ad un concorso interno, teso a premiare il venditore che avesse contribuito all’emissione dello scontrino di maggior valore. L’artifizio, quindi, posto in essere dalla lavoratrice (accorpare in unico scontrino diverse transazioni) era finalizzato non certo a violare le regole disciplinanti lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma ad eludere quelle del concorso interno per migliorare la propria performance individuale. La condotta invero non era affatto motivata dalla volontà di arrecare un danno al datore di lavoro, ma era determinata dallo spirito di competizione.>>.
La sentenza è molto importante perché fornisce una chiara prova della regressione di tutele che la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, operata dalla Legge Fornero, ha sancito: se infatti, prima di tale riforma, la sproporzione del licenziamento portava alla reintegra del lavoratore interessato (come è avvenuto nel caso in questione), dopo la riforma, tale categoria di invalidità del licenziamento porta soltanto ad ottenere un indennizzo, con buona pace non solo del posto di lavoro, ma anche del principio per cui ogni sanzione deve poter essere intimata in rapporto con l’effettiva rilevanza della ragione per cui è irrogata.
Al carpentiere licenziato per giusta causa per avere pronunciato ad alta voce frasi scorrette al datore di lavoro abbiamo fatto ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento per non avere il datore di lavoro fornito valida prova dei fatti contestati. Il Giudice ha quindi condannato il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore in servizio, a pagargli tutte le retribuzioni perse dal licenziamento alla effettiva reintegrazione e a rimborsargli le spese legali.
Alla dipendente del call center che aveva prestato attività in forza di vari contratti di collaborazione a progetto abbiamo fatto ottenere la conversione fin dall'inizio in un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, l'inquadramento nel 2° livello del ccnl commercio, e la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Difatti la cessazione anticipata del contratto comunicata dall'azienda - dopo la riqualificazione del rapporto in termini di lavoro subordinato e l'accertamento incidentale del requisito dimensionale per la c.d. "tutela reale" - ha assunto la natura di un licenziamento illegittimo.
Ai camerieri assunti con contratto a termine abbiamo fatto ottenere l'accertamento della nullità del contratto ed il conseguente riconoscimento della natura a tempo indeterminato fin dall'inizio, ma anche l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento oralmente intimato loro. Il datore di lavoro é stato condannato a ripristinare i rapporti di lavoro ed a corrispondere ai lavoratori tutte le retribuzioni perse dalla data del licenziamento fino alla effettiva riammissione in servizio.
All'operatore ecologico licenziato per cessazione d'appalto abbiamo fatto ottenere la reintegra nel posto di lavoro, un'indennità risarcitoria pari a 6 mensilità ed il rimborso delle spese legali. Il Giudice - sulla base dei nostri rilievi - ha potuto accertare che successivamente al licenziamento impugnato l'azienda aveva effettuato numerose nuove assunzioni seppure a tempo determinato ma relative alle stesse mansioni del lavoratore licenziato, in tal modo dimostrando di aver pienamente violato l'obbligo di repechage.
Alla stagista, poi assunta dalla stessa società con contratto a tempo indeterminato soggetto a periodo di prova per svolgere le medesime mansioni già svolte durante lo stage, abbiamo fatto ottenere l'accertamento della nullità del patto di prova e la conseguente illegittimità del licenziamento intimatole per mancato superamento della prova. Il Giudice ha osservato che:<<In conclusione, essendo principio immanente alla prova che essa non può svolgersi che una sola volta, salvo ricorrano situazioni del tutto particolari tali da consentirne la riedizione all’atto della assunzione o riassunzione del dipendente, situazioni che nel caso di specie non è dato rinvenire e ciò specie se si considera la dichiarata funzione dello stage, la sostanziale continuità della attività lavorativa svolta e la prossimità temporale tra lo svolgimento dello stage e l’assunzione a tempo indeterminato, si deve concludere nel senso della nullità della clausola relativa alla apposizione del patto di prova>>.
Il datore di lavoro é stato condannato a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro, a corrisponderle tutte le retribuzioni perse dal licenziamento alla effettiva reintegra ed a rimborsarle le spese legali.
Alla lavoratrice, nei cui confronti il datore di lavoro aveva tentato il licenziamento durante la gravidanza, licenziamento poi effettivamente intimato 1 mese dopo il compimento di un anno di età del bambino, abbiamo fatto ottenere l'accertamento della discriminatorietà del licenziamento e la conseguente condanna del datore di lavoro a reintegrarla in servizio, a risarcirle tutte le retribuzioni perse dalla data del licenziamento all'effettiva reintegra ed a rimborsarle le spese legali. Il Giudice per giungere a ritenere discriminatorio il licenziamento ha in particolare osservato che <<La volontà di licenziare la ricorrente (e solo lei) esplicitata chiaramente nel colloquio del 19 marzo, ha trovato attuazione non appena venuti meno i divieti imposti dalla legge, e cioè a distanza di meno di un mese dal compimento dell’anno di età del figlio, senza che mai sia stato proposto alla ricorrente (unica fra tutti i lavoratori della filiale) di ridurre l’orario di lavoro>>.
Alla addetta alle vendite di una società fallita insieme alla società capogruppo tedesca abbiamo fatto ottenere l'accertamento della competenza a giudicare del Tribunale del lavoro italiano nonché l'annullamento del licenziamento intimatole nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo.
Ad un gruppo di lavoratrici licenziate nell'ambito di un licenziamento collettivo motivato dalla decisione di chiudere l'albergo al quale erano addette, abbiamo fatto ottenere l'accertamento della illegittimità del licenziamento per non avere il datore di lavoro correttamente circoscritto la platea dei lavoratori tra i quali individuare gli esuberi. Il Giudice ha precisato che <<Non costituisce invece una circostanza oggettiva che giustifichi la limitazione dell’ambito della scelta dei dipendenti da licenziare l’esigenza di riduzione originata dalla situazione verificatasi in una determinata unità e non in un’altra>>.
La decisione, come può vedersi, è stata confermata sia in sede di opposizione sia in sede di reclamo.
Corte d'Appello Milano 31.05.2013.pdf
All'operatore di un Call Center assunto con contratto a termine per <<problematiche di natura organizzativa/gestionale, in relazione alla fase di avvio della nostra attività>> abbiamo fatto ottenere l'accertamento della nullità del termine apposto al contratto e la dichiarazione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dall'inizio.
Inoltre, poiché il lavoratore era stato licenziato disciplinarmente abbiamo richiesto ed ottenuto l'accertamento della illegittimità del licenziamento con condanna del datore di lavoro a reintegrare il dipendente in servizio e a corrispondere le tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella dell'effettiva reintegra nonché il rimborso delle spese legali.
All'impiegato licenziato insieme a tutti i suoi 18 colleghi per cessazione dell'attività aziendale senza il rispetto della procedura di licenziamento collettivo abbiamo fatto ottenere la reintegra nel posto di lavoro, tutte le retribuzioni perse dalla data del licenziamento alla effettiva reintegra ed il rimborso delle spese legali.
All'operatrice di un Call Center assunta con contratto a termine per <<problematiche di natura organizzativa/gestionale, in relazione alla fase di avvio della nostra attività>> abbiamo fatto ottenere l'accertamento della nullità del termine apposto al contratto e la dichiarazione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dall'inizio. Inoltre, poiché la lavoratrice era stata licenziata disciplinarmente per assenze ingiustificate e per recidiva nei ritardi ingiustificati oltre la quinta volta nell'anno solare, abbiamo richiesto ed ottenuto l'accertamento della illegittimità del licenziamento in quanto sanzione sproporzionata rispetto ai fatti contestati. Il datore di lavoro è stato condannato a reintegrare la dipendente nel luogo di lavoro e a corrispondere le tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella dell'effettiva reintegra nonché il rimborso delle spese legali.
Al barista non assunto regolarmente abbiamo fatto ottenere l'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nonché l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento oralmente intimatogli. Il Giudice ha condannato il datore di lavoro a reintegrarlo in servizio, a corrispondergli un'indennità risarcitoria pari a 5 mensilità e a rimborsargli le spese legali.
Una dipendente era stata licenziata per superamento del periodo di comporto per malattia, nel quale comporto erano stati conteggiati anche dei periodi di assenza per malattia effettuati durante la gravidanza (prima che questa venisse interrotta), nonostante l’art. 180 del Ccnl Commercio prevedesse che: <<in caso di malattia prodotta dallo stato di gravidanza nei mesi precedenti il periodo di divieto di licenziamento, il datore di lavoro è obbligato a conservare il posto alla lavoratrice>>.
Abbiamo fatto accertare al Giudice che le assenze erroneamente computate nel calcolo del comporto erano sì da escludere perché, sebbene non direttamente connesse allo stato di gravidanza né erano indirettamente un effetto, dal momento che la lavoratrice, a causa dello stato di gravidanza, aveva dovuto interrompere l’assunzione dei farmaci antidepressivi con i quali era in cura e proprio a tale interruzione erano dovute le assenze dal lavoro per malattia.
Il Giudice ha accolto il ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. ed ordinato la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, evidenziando la sussistenza del periculum in mora ossia la potenziale irreparabilità della lesione del diritto azionato, atteso che:
<<la ricorrente trae dal lavoro l’unico sostentamento alimentare per il mantenimento proprio e delle proprie tre figlie, in un contesto di separazione dal marito che peraltro provvede con fatica agli obblighi alimentari stessi; senza contare anche la evidente situazione di precarietà delle condizioni psicofisiche della lavoratrice che rendono ancora più difficile il reperimento di altra sistemazione lavorativa>>.
Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria a tutela di un lavoratore di un bar il cui rapporto di lavoro era stato illegittimamente inquadrato.
Ed infatti, nonostante il nostro assistito avesse sin dal principio lavorato con tutti i requisiti della subordinazione, egli era stato contrattualizzato attraverso un rapporto di associazione in partecipazione dal precedente titolare, per poi essere assunto con contratto di lavoro a termine dal nuovo gestore del bar e da questo licenziato per asserito mancato superamento della prova prevista dal nuovo contratto.
Abbiamo, tuttavia, fatto accertare non solo la nullità del rapporto di associazione in partecipazione con il primo datore di lavoro, ottenendo l’accertamento della natura subordinata del rapporto, ma anche che tra i due titolari che si erano succeduti nella gestione del bar era intervenuto un trasferimento di azienda e che, pertanto, il lavoratore non doveva essere riassunto dal nuovo gestore perché il suo rapporto avrebbe dovuto continuare ai sensi di legge proprio in conseguenza del trasferimento di azienda.
Ragione, questa, da cui discendeva anche l’accertata nullità del patto di prova e del relativo licenziamento (poiché non può farsi sottoscrivere ad un lavoratore un patto di prova dopo che il rapporto di lavoro è già sorto ed ha già iniziato ad avere esecuzione).
La sentenza che si è ottenuta, all’esito di un complesso giudizio che abbracciava almeno 6 questioni di rilevante importanza per il diritto del lavoro (dalla nullità del contratto di associazione in partecipazione ed alla natura invece subordinata del rapporto di lavoro, all’accertamento del trasferimento di azienda e del diritto al passaggio automatico di tale rapporto di lavoro, alla nullità del patto di prova, e così via), ha dunque consentito al nostro assistito di ottenere il giusto indennizzo per ciascuna delle violazioni di legge di cui era stato vittima.
Sentenza n. 391_2015 Tribunale Milano.pdf

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