Diritti d'autore © Studio Associato Pironti Laratro 2018

Studio Legale Associato Pironti Laratro

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Studio Legale Associato Pironti Laratro

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Difendiamo il diritto al lavoro.

Consulenza ed assistenza giudiziale in materia di diritto del lavoro e previdenza sociale ad operai, impiegati, quadri e dirigenti.

 

 

 

Lo Studio Associato Pironti Laratro, dalla sua costituzione nel 2011 ad oggi, ha assunto la difesa di oltre 3000 posizioni tra impiegati, operai, quadri, collaboratori, amministratori e dirigenti, che avevano problematiche nascenti dal loro rapporto di lavoro, tra le più svariate: dalla più comune necessità di riottenere il posto di lavoro a seguito di un licenziamento ingiusto a quella di recuperare retribuzioni o compensi maturati e non ancora percepiti; dalla volontà di far regolarizzare un rapporto di lavoro non contrattualizzato (“in nero”) alla volontà di opporsi ad un trasferimento di sede di lavoro ingiustificato; dalla necessità di ottenere premi di risultato contestati dal datore di lavoro alla volontà di far dichiarare illegittima una procedura di licenziamento collettivo.

Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria nei confronti di una società leader nel settore della vigilanza privata con riguardo alle differenze retributive dovute per il riconoscimento degli AFAC (Anticipi sui futuri aumenti contrattuali) nonché per il corretto calcolo delle maggiorazioni per lavoro straordinario feriale e festivo effettivamente svolte dal lavoratore.

Le tesi giuridiche sostenute nel ricorso sono state interamente accolte dal Tribunale, il quale ha disposto che le differenze retributive maturate dal nostro assistito dovessero essere corrisposte dalla società come quantificate in ricorso.

Tribunale di Milano n. 127.2024.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria nei confronti di una cooperativa sociale operante nel settore dell’assistenza socio sanitaria ed assistenziale.

Nello specifico, la lavoratrice nostra assistita avanzava richieste di pagamento di differenze retributive dovute per effetto dello svolgimento di mansioni inquadrabili in un livello superiore del CCNL applicato al rapporto di lavoro rispetto al livello di formale inquadramento.

Il Giudice del lavoro ha accolto la tesi del ricorso, supportata dalle prove testimoniali rese in giudizio, riconoscendo alla lavoratrice nostra assistita i diritti per cui aveva agito in giudizio e condannando la cooperativa sociale e la Fondazione che appaltava la prestazione di servizi in solido a corrisponderle le somme richieste.

Tribunale di Milano n. 4440.2024.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto un’ulteriore importante vittoria nei confronti di una importante cooperativa sociale operante nel settore dell’assistenza socio sanitaria ed assistenziale.

Nello specifico, il lavoratore da noi assistito è stato assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato part-time, senza che però venisse rispettato l’obbligo previsto dalla normativa che impone al datore di lavoro di indicare nella lettera di assunzione la turnazione in modo fisso, predeterminato ed immutato nel tempo, così da consentire al lavoratore ricorrente la possibilità di trovare un’altra occupazione nel tempo libero per integrare il reddito e gestire al meglio le esigenze di vita e familiari.

Per tale ragione, con integrale accoglimento delle proprie tesi difensive, lo Studio ha ottenuto dal Giudice del lavoro sia la determinazione dell’orario fisso e predeterminato per tutto il tempo a venire (ripristinando la piena legalità al riguardo), sia la condanna al pagamento – in favore di quest’ultimo – del risarcimento del danno previsto dalla legge in siffatte ipotesi di violazione della normativa sul part-time.

Tribunale di Milano n. 4214.2023.pdf

Il nostro Studio - nell’ambito di un procedimento “ex rito Fornero” - ha già all’esito del giudizio sommario di prime cure ottenuto un’importante vittoria a tutela dei diritti di un dipendente funzionario di banca che si era visto licenziare per motivi disciplinari fondati su una serie di asseriti addebiti addossati al lavoratore.

Ebbene, come da sua tesi originaria esposta negli atti processuali, lo Studio è riuscito non solo a far emergere in giudizio che taluni di tali addebiti non si erano mai verificati, ma anche a far accogliere l’argomentazione difensiva per cui alcuni di essi avrebbero dovuto essere sanzionati non con il licenziamento, ma con una sanzione conservativa (non diretta, cioè, ad espellere il lavoratore dall’azienda), così riuscendo ad ottenere, per il nostro assistito, la tutela della reintegrazione in sevizio  prevista dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.

Il lavoratore è stato, quindi, reintegrato in servizio e si è visto corrispondere il danno commisurato a tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di reintegra (completamente pagate dall’azienda).

Il provvedimento è stato confermato sia in sede di opposizione che in sede di appello.

Ordinanza Tribunale Milano del 12.11.2021.pdf

Sentenza C.A. Milano n. 734_2022.pdf

Sentenza Tribunale Milano n. 1319_2022.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto tre importanti vittorie, contro un’azienda leader nel settore di produzione di riferimento, per tre lavoratori adibiti a mansioni di vigilanza privata.

In particolare, i tre lavoratori lamentavano il diritto a vedersi corrispondere somme retributiveconseguenti all’errato calcolo che l’azienda effettuava sia circa l’incidenza (nella complessiva retribuzione mensile) della a quota di retribuzione destinata all’acconto sui futuri aumenti contrattuali, sia circa il compenso da doversi prendere a riferimento per il lavoro straordinario.

Nello specifico, se da un lato con riferimento all’acconto sui futuri aumenti contrattuali l’azienda immotivatamente non ricomprendeva l’incidenza di tale voce in quella della retribuzione normale da corrispondersi ai lavoratori (dovendo invece essere ricompresa negli elementi fissi della retribuzione), dall’altro lato con riferimento alle modalità di calcolare il compenso per il lavoro straordinario doveva essere usato il diverso divisore (rispetto a quello illegittimamente utilizzato dall’azienda) della retribuzione richiesto dallo Studio, così da aversi quel dovuto aumento della quota di retribuzione richiesto a tale titolo.

In giudizio, sono state accolte sia la nostra impostazione, sia le argomentazioni sostenute al riguardo, ed il Giudice del lavoro ha condannato l’azienda a corrispondere ai nostri assisiti le somme richieste in  ragione delle omissioni in cui era incorso il datore di lavoro.

Sentenza Tribunale Milano n. 2599_2023.pdf

Sentenza Tribunale Milano n. 2803_23.pdf

Sentenza Tribunale Milano n. 3282_23.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria a favore di una lavoratrice addetta ad un bar (con un solo dipendente) la quale, dopo essere stata molestata da taluni clienti e dopo avere reagito alle molestie, si era vista dapprima aggredire da uno di tali clienti (che le procurava ferite fisiche) e poi licenziare dall’azienda per il solo fatto di avere reagito a tali molestie.

Ebbene, lo Studio è riuscito a far accogliere al Giudice del Lavoro la tesi per cui avendo l’azienda non difeso la lavoratrice da tali molestie, ma licenziato la quest’ultima per effetto di reazioni intervenute avverso le stesse molestie, aveva così e di fatto avallato, facendolo proprio, il grave comportamento dei suoi avventori ed aveva per ciò solo posto in essere un licenziamento discriminatorio (come è quello conseguente a molestie sessuali).

Pertanto, all’esito del giudizio, accertata la discriminatorietà del licenziamento della lavoratrice nostra assistita, il Giudice ha disposto la reintegrazione in servizio della lavoratrice stessa (come previsto dal decreto legislativo n. 23/2015 in tema di licenziamento di tale categoria - nonostante non si fosse in presenza di un contesto produttivo con più di 15 dipendenti) e la condanna alpagamento in favore della nostra assistita di tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di reintegrazione in servizio.

Sentenza Tribunale Bergamo n. 711_2022.pdf

Abbiamo ottenuto - contro una delle multinazionali che gestiscono l’attività di consegna al domicilio del cibo - un’importante vittoria a tutela di un lavoratore rider, settore in cui il nostro Studio è diventato un importante punto riferimento nel territorio milanese viste le decine e decine di casi di cui si è al riguardo occupato negli ultimi anni.

In particolare, il rider assistito nel caso di specie era stato dapprima assunto con “finti” contratti di lavoro autonomo, ed infine lasciato a casa con apposita comunicazione di recesso con cui l’azienda gli aveva riferito di non avere più bisogno di lui.

Ebbene, lo Studio - avvalendosi della normativa prevista dall’articolo 2 del decreto legislativo  81/2015, per cui deve applicarsi la disciplina della subordinazione (e cioè tutta la normativa prevista a tutela dei diritti dei dipendenti, tra cui anche quella relativa ai licenziamenti illegittimi) anche ai lavoratori non assunti come subordinati ma che di fatto operano in un contesto in cui l’attività è organizzata (per i tempi ed i luoghi di lavoro) dal datore di lavoro - ha contribuito a far accertare l’inquadramento del rapporto di lavoro del rider nell’ambito di tale articolo 2, a far annullare il licenziamento ed a fare, quindi, reintegrare in servizio il lavoratore, oltre che a fargli corrispondere le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione in servizio.

Si consideri che la reintegrazione in servizio è stata disposta dal Giudice del lavoro con l’orario di lavoro full-time, con l’inquadramento livello previsto per le mansioni del rider nel contratto collettivo nazionale del commercio (quello di settore), con la retribuzione piena prevista da tale contratto per tale livello di professionalità (dunque comprensiva di tredicesima e quattordicesima) e con le tutele della subordinazione (ferie e permessi pagati, trattamento di fine rapporto maturato anno per anno, etc.): il rapporto di lavoro è stato dunque ricostituito dal Giudice come un vero e proprio lavoro subordinato ed il rider ha così ottenuto tutte le garanzie economiche, giuridiche e di sicurezza sul lavoro, anche “pro futuro”, che l’azienda gli aveva negato nel periodo precedente a quello della causa vinta.

A quanto consta, è la prima sentenza ad avere applicato al lavoratore il cui rapporto sia inquadrato nell’articolo 2 del suddetto decreto legislativo anche la disciplina prevista a favore dei subordinati  in materia di licenziamento. 

Tribunale di Milano Sentenza n. 2864_2022.pdf

Ancora un’importante vittoria a favore di una socia lavoratrice (nostra assistita) dipendente di cooperativa ed assegnata a mansioni di cura e gestione degli ospiti presso una R.S.A.

La lavoratrice era stata licenziata per asseriti addebiti disciplinari consistenti nell’essere stata assente ingiustificata dal servizio in virtù del fatto che non si sarebbe presentata in servizio dopo una visita di accertamento di idoneità professionale fissata per valutare lo stato fisico della dipendente che era stata in precedenza ritenuta non idonea.

Ebbene, è stata accolta la tesi per cui, essendo stata in precedenza ritenuta inidonea senza previsione temporale (e cioè senza una data fino alla quale tale accertamento sarebbe valso), la semplice mancata presentazione a nuova visita di accertamento, così come la semplice mancata presentazione in servizio dopo la stessa non era idonea a configurare né un’assenza ingiustificata (essendo invece l’’assenza dal servizio giustificata, fino a nuova visita, proprio dal precedente accertamento di inidoneità), né tanto meno una giusta causa di licenziamento.

Pertanto, è stata accertata l’illegittimità non solo del licenziamento, ma anche della contestuale esclusione della nostra assistita dalla qualità di socio; conseguentemente,  la lavoratrice è stata reintegrata sia in servizio, sia nella compagine sociale, con condanna della cooperativa a saldarle tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di reintegrazione.

Si badi bene, infatti, che la vittoria è importante altresì sotto il profilo processuale, poiché lo studio è riuscito non solo a far dichiarare la competenza del Giudice del lavoro a conoscere della causa in questione, ma anche a far applicare, a tutela contro l’illegittimo licenziamento, le previsioni normative giuslavoristiche (segnatamente: l’art. 3, comma 2, del decreto legislativo m. 23/2015) che prevedono al reintegrazione in servizio pur essendosi in presenza di una dipendente di cooperativa che era stata (non solo licenziata, ma anche) esclusa dalla compagine sociale.

Tribunale di Milano Sentenza n. 1271_2023.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto un’importantissima vittoria in una materia delicatissima e quanto mai attuale, quella relativa al ricorso, da parte delle imprese utilizzatrici, di contratti di lavoro “precari” che intestano formalmente a terzi soggetti il rapporto dei lavoratori che vengono tuttavia direttamente organizzati e gestiti dallo stesso utlizzatore, così garantendosi - contro le più elementari norme del nostro ordinamento - la maggiore flessibilità possibile nella gestione della forza lavoro.

In particolare, il nostro Studio difendeva un gruppo di lavoratori che era stato assunto da un’impresa leader nel settore delle telecomunicazioni dapprima con contratto di lavoro a termine per la durata di 12 mesi (e cioè per quel periodo per cui la legge all’epoca prevedeva la liberalizzazione delle assunzioni a tempo determinato) e poi, guarda caso alla scadenza di tali 12 mesi, con contratto di somministrazione per il tramite di apposita Agenzia, per poi, dopo ulteriori 12 mesi, non chiamare più al lavoro i lavoratori in questione (che erano per ciò stati collocati in cassa integrazione dall’agenzia di lavoro interinale che li aveva per ciò assunti e prestati all’utilizzatore).

Il nostro Studio ha, pertanto, impugnato il complessivo comportamento tenuto dall’impresa utilizzatrice (oltre che i contratti da questa usati per godere della prestazione dei lavoratori interessati) perché in chiara frode alla legge e, in particolare, di quella normativa comunitaria e nazionale che impone l’assunzione a tempo indeterminato laddove la stessa assunzione abbia ad oggetto un’attività di carattere stabile e permanente, e non temporaneo.

Era, infatti, chiaro sin dal principio l’obiettivo dell’impresa utilizzatrice: adibire ad attività di carattere stabile gruppi di lavoratori che non si volevano assumere a tempo indeterminato, e dunque prima assumendoli direttamente con contratto a termine per 12 mesi (e cioè per il periodo in cui per legge non bisognava specificare le ragioni dell’assunzione a termine, che non c’erano) per poi, quando un eventuale rinnovo di contratto a termine avrebbe determinato l’obbligo di specificare tali ragioni (appunto: che non c’erano), facendoli assumere con somministrazione a tempo indeterminato da una terza agenzia sfruttando la possibilità di poterli continuare ad usare per attività stabili senza continuare a motivare il perché di un’assunzione a termine che sarebbe apparsa illegittima.

Ebbene, la tesi è stata integralmente accolta dal Giudice del lavoro, il quale ha dichiarato per tali ragioni nulli i contratti di natura precaria a cui era ricorsa l’impresa utilizzatrice al fine di potere usufruire di manodopera senza assumersene i rischi, avendo così da un lato costituito i rapporti di lavoro dei nostri assistiti in capo a tale impresa e dall’altro lato condannato quest’ultima a reintegrare i lavoratori in servizio pagando loro le retribuzioni perse dalla data di estromissione dal servizio fino a quella di riammissione in azienda.

Tribunale di Milano Sentenza n. 882_2023.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto un’importantissima vittoria all’esito di un’estenuante percorso processuale che nell’arco di dieci anni (e con ben sette giudizi) ci ha visti vincere per ben due volte in Cassazione prima di vedere accogliere le domande, le pretese e le doglianze dei nostri assistiti dalla Corte d’Appello di Milano all’esito del secondo giudizio di rinvio.

In particolare, si assistevano due lavoratori che erano stati assunti con contratti di lavoro di apprendistato ed all’esito degli stessi non erano stati confermati in servizio e quindi licenziati.

Lo Studio, sin dall’inizio, aveva (tra le altre ragioni)n impugnato i contratti di apprendistato ritenendoli illegittimi dal momento che, contrariamente al chiaro disposto dell’articolo 49 del decreto legislativo n. 276/2003, erano stati firmati prima i contratti di lavoro e cinque giorni dopo i progetti formativi, ciò determinando: i) che non vi era stata simultanea sottoscrizione dei documenti in questione (lo si ribadisce: i contratti di lavoro ed i progetti formativi); ii) che i progetti formativi,invece di essere contenuti all’interno dei contratti di lavoro, erano contenuti in documenti esterni agli stessi.

I vari Giudici di merito che si erano interessati della vicenda non avevano colto l’importanza di tale doglianza, la quale, lungi dall’integrare un una mera petizione di principio formalistico, in realtà era direzionata a garantire la tutela per ciò prevista tanto dal tenore letterale della normativa in esame, quanto dallo spirito che la contraddistingueva (riferito all’obiettivo di evitare facili aggiramentidell’obbligo di assumere con ordinari contratti di lavoro subordinati).

Ebbene, dopo anni ed anni di battaglia giudiziaria, la causa è stata vinta da ultimo davanti alla Suprema Corte, la quale, come al solito attentissima a valutare la violazione delle norme di diritto al di là di facili e scontati approcci sostanzialistici, ha colto l’importanza della doglianza al riguardo esposte dallo Studio accogliendone le argomentazioni ed enunciando il principio di diritto - cui poi la Corte d’Appello (alla quale è stata rinviata la causa per la decisione di merito finale) ha dovuto uniformarsi - che ha di fatto riprodotto la nostra tesi.

Ed il principio, appunto, è quello per cui in tema di contratti di apprendistato (ai fini della loro validità): i) deve esserci simultanea sottoscrizione dei contratti di lavoro e dei progetti formativi; ii) dal momento che il progetto formativo deve essere contenuto ed indicato all’interno del contratto di lavoro.

I contratti di apprendistato sono stati, quindi, ritenuti illegittimi, i rapporti di lavoro sono stati dichiarati come ordinari rapporti di lavoro subordinati sin dal principio e sono stati pertanto ritenuti illegittimi i licenziamenti in esame; il datore di lavoro di lavoro è stato così condannato alla reintegrazione in servizio dei ricorrenti ed al pagamento delle retribuzioni perse dalla data di licenziamento a quella di reintegrazione in servizio.

Partita finisce quanto arbitro fischia, diceva il mitico Vujadin Boskov; mai arrendersi fino alla fine, diciamo noi.

Corte D'Appello di Milano Sentenza n. 881_2023.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto una importante vittoria ancora una volta a tutela di una lavoratrice (operatrice sanitaria) che opera all’interno di una RSA.

In particolare, la nostra assistita era stata assunta con un contratto a termine e, durante l’esecuzione dello stesso, era stata trasferita ad un'altra struttura rispetto a quella in cui operava per effetto della cosiddetta clausola di non gradimento esercitata dalla Fondazione committente (in sostanza: quest’ultima ne aveva richiesto l’allontanamento al datore di lavoro che gestiva l’appalto presso la struttura di degenza in questione), e ciò per il solo fatto di avere denunciato penalmente la mancata adozione all’interno di tale struttura di tutte le misure di sicurezza anti-covid (così da mettere a rischio la sicurezza non solo delle operatrici sanitarie, ma anche del personale degente).

Il nostro Studio aveva agito in giudizio sia per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato, lamentando l’illegittimità del ricorso al contratto a termine in virtù del fatto che nelle proroghe dell’originario contratto, pur sforando il periodo massimo di 12 mesi per ciò previsto, non era stata esplicitata la “causale” (e cioè l’esigenza di mantenere a termine la lavoratrice – invece che assumerla a tempo indeterminato), sia per ottenere l’annullamento del trasferimento e la riassegnazione (a causa vinta ed a rapporto di lavoro a tempo indeterminato accertato) presso la vecchia struttura, dal momento che lo stesso trasferimento era stato determinato esclusivamente da motivo di ritorsione e vendetta per l’esercizio di un diritto fatto valere dalla lavoratrice (quello dell’intervenuta denuncia penale).

Il Giudice del lavoro, in accoglimento delle nostre tesi, ha integralmente accolto il ricorso della lavoratrice, dichiarando l’assunzione a tempo indeterminato (al riguardo condannando l’azienda a pagare il massimo dell’indennizzo previsto dalla legislazione che vieta l’illegittimo contratto a termine), e dichiarando la ritorsività del trasferimento di cui ella era stata vittima, reintegrandola presso la vecchia ed originaria sede di lavoro.

Sentenza n. 1979_2021 Tribunale di Milano.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto una importante vittoria ancora una volta a tutela di una lavoratrice addetta a mansioni di cameriera in un bar del milanese.

In particolare, la nostra assistita era stata assunta con un contratto a termine, con inquadramento in un livello contrattuale inferiore a quello dovuto per le mansioni svolte, non si era vista pagare taluni stipendi durante l’esecuzione del rapporto ed era stata licenziata oralmente dal proprio datore di lavoro.

Il nostro Studio aveva agito in giudizio sia per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato, lamentando l’illegittimità del ricorso al contratto a termine in virtù del fatto che nel caso di specie non esisteva alcun contratto di lavoro per ciò sottoscritto dalla lavoratrice, sia per ottenere l’inquadramento nel corretto livello previsto dal contratto collettivo nazionale per le mansioni svolte, sia per ottenere il pagamento degli arretrati retributivi, sia, infine, per ottenere l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro, la quale, sebbene trattandosi di un’azienda con meno di 15 dipendenti, le spettava (per espressa previsione di legge: l’articolo 2 del decreto legislativo n. 23/2015) in virtù del fatto che l’allontanamento dal posto di lavoro non era stato disposto per iscritto ma solo a parole.

Il Giudice del lavoro, in accoglimento delle nostre tesi, ha integralmente accolto il ricorso della lavoratrice, dichiarando l’assunzione a tempo indeterminato, inquadrando la lavoratrice nel superiore livello richiesto, prevedendo la condanna a pagarle gli arretrati retributivi richiesti ed annullando il licenziamento orale con condanna alla reintegrazione in servizio, di cui la lavoratrice potrà usufruire nonostante lavorasse in un’azienda al di sotto dei 15 dipendenti.

Sentenza n. 2214_2021 Tribunale di Milano.pdf

Il nostro Studio è riuscito a “ribaltare” in secondo grado, a favore del lavoratore assistito, due provvedimenti che nel giudizio di primo grado “Fornero” (che, come noto, si articola in due distinti procedimenti: il primo di natura sommaria ed il secondo di opposizione ed a cognizione piena) avevano invece rigettato il ricorso del nostro assistito.

In particolare, il lavoratore era stato licenziato per aver proferito, ad avviso del datore di lavoro, frasi ingiuriose, seppure qualificate come minacce, verso il dirigente dell’azienda appaltante e per avere, sempre ad avviso dell’azienda, tenuto comportamenti aggressivi verso due impiegate dell’azienda datrice di lavoro.

La peculiarità del caso concreto, tuttavia, era caratterizzata sia dal fatto che il lavoratore attraversava un difficile momento psico-fisico (tanto che era in cura presso centri specializzati nel trattamento dei disturbi che lo affliggevano), sia dal fatto che egli mai prima di allora commesso alcun illecito disciplinare, circostanze, queste, sulle quali si era basata la nostra difesa quanto meno in merito alla questione per cui, anche ove ammessa la sussistenza dei fatti imputati, il licenziamento era comunque da ritenersi illegittimo perché sproporzionato in relazione, appunto, sia all’assenza di precedenti disciplinari, sia alla mancanza dell’elemento intenzionale/soggettivo (posto che sotto il profilo medico/psichiatrico il lavoratore non era all’epoca in grado di contenere taluni stati d’animo).

Ebbene, come anticipato, dopo due provvedimenti contrari, in secondo grado la Corte d’Appello ha invece accolto l’impianto difensivo in questione, ed ha accertato l’illegittimità del licenziamento per la sua sproporzione, nonché, applicata la tutela risarcitoria piena di cui all’articolo 18, comma quinto, della legge n. 300/1970, condannato l’azienda a risarcire il lavoratore con versamento in suo favore di una cospicua somma indennitaria.

Sentenza n. 168_2021 Corte Appello Brescia.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria a tutela di un lavoratore impiegato come addetto alla sicurezza da un’agenzia specializzata in questo servizio fornito presso esercizi commerciali gestiti dalle varie società committenti.

In particolare, il nostro assistito, che aveva lavorato per l’agenzia datrice di lavoro continuativamente per molti anni, era stato inquadrato con un contratto di lavoro autonomo ed era stato improvvisamente estromesso dal servizio per effetto di una semplice comunicazione verbale.

Si è quindi provveduto ad impugnare sia i contratti di lavoro autonomo, chiedendo al Giudice di accertare che tra le parti era in realtà sussistito un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall’origine, sia il licenziamento subito, in quanto non intimato in forma scritta e come tale assoggettato alla tutela della reintegrazione in servizio prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Il Giudice adito, in accoglimento delle nostre tesi difensive, ha accolto il ricorso del lavoratore da un lato, appunto, dichiarando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato (ed annullando i contratti di lavoro autonomi sottoscritti invece di quest’ultimo), e dall’altro lato disponendo la reintegrazione in servizio del nostro assistito, il quale ha ora la possibilità di godere di un posto di lavoro fisso (con possibilità di recuperare anche tutti i contributi previdenziali dovuti per tutti gli anni di rapporto in cui non erano stati versati).

Ordinanza del 09.06.2021 Tribunale di Milano.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto un’importante vittoria a tutela di una lavoratrice addetta a mansioni di estetista ed acconciatrice, la quale, inizialmente assunta con contratto di lavoro a tempo determinato, ha ottenuto una sentenza con cui il Giudice del lavoro, avendo accertato la violazione da parte del datore di lavoro della normativa che impone l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi nel negozio di assegnazione, ha dichiarato la sua assunzione a tempo indeterminato e la condanna in suo favore del risarcimento del danno previsto dalla legge, oltre a riconoscerle il pagamento degli stipendi arretrati che aveva maturato n costanza di rapporto.

E’ un’altra vittoria importante nel settore normativo in questione, perché ancora una volta si è riusciti ad ottenere l’assunzione a tempo indeterminato in conseguenza di un errore che purtroppo i datori di lavoro commettono in molti casi - non attribuendo alla sicurezza sul lavoro la dovuta attenzione.

Sentenza n. 321_2021 Tribunale di Monza.pdf

Altra vittoria ottenuta dal nostro Studio per i lavoratori che operano all’interno delle R.S.A..

La vittoria duplice perché da un lato si è ottenuto in favore della nostra assistita l’annullamento del contratto di lavoro a termine e l’assunzione a tempo indeterminato, e dall’altro lato si è ottenuta la condanna al pagamento dell’indennizzo previsto dalla legge a tutela della lavoratrice assunta con orario di lavoro parziale nel cui contratto non sia stata tuttavia stabilita la specifica indicazione dei turni di lavoro fissi e predeterminati a cui ella sarebbe stata assegnata durante il rapporto di lavoro.

Non solo, dunque, con la sentenza in questione si è garantito alla lavoratrice il posto fisso, ma si è anche garantito alla stessa un’equa compensazione per la continua modificazione dei turni di lavoro di cui la lavoratrice è stata vittima, pur avendo diritto (come si è fatto accertare) ad un orario di lavoro part-time con turni fissi e da rispettarsi nel tempo.

Sentenza n 1146_2021 dott.ssa Moglia.pdf

Con la collaborazione del nostro Studio si sono ottenute due importanti sentenze a tutela di due gruppi di lavoratori i quali, già dipendenti di un’appaltatrice nell’ambito di un appalto di servizi gestiti da un’appaltante/società leader nel settore della movimentazione delle merci, dopo che quest’ultima aveva deciso di internalizzare le attività (e cioè di svolgerle direttamente, ovvero non più per il tramite di terzi appaltatori) non erano stati assunti da tale società.

Tuttavia, ed è ciò che è stato prospettato in entrambi i distinti giudizi al Tribunale del Lavoro, una simile operazione nascondeva il più classico dei trasferimenti tutelati dall’articolo 2112 del codice civile, dal momento che tanto il personale già operante presso l’appaltatrice che gestiva il servizio, quanto i mezzi di produzione dagli stessi utilizzati integravano un ramo di azienda ben definito e ben organizzato in vista della produzione del servizio in questione.

Gli effetti dell’applicazione di questa norma codicistica erano e sono tali da prevedere l’obbligatoria acquisizione/assunzione in carico all’appaltante (e di preciso: del soggetto che di fatto è subentrato nella titolarità gestionale del servizio stesso) di tutti i lavoratori che prima lavoravano alle dipendenze dell’appaltatore (e cioè del soggetto che tale ramo di azienda ha di fatto ceduto).

Ma, ciononostante, i nostri assistiti non erano stati assunti dalla società appaltante/subentrante, al contrario di molti loro colleghi.

Si è dunque convenuto in giudizio tale società, nei due distinti giudizi in questione, chiedendo al Tribunale del Lavoro - una volta accertata la sussistenza e l’acquisizione del ramo di azienda in cui erano impiegati i nostri assistiti da parte della società ex appaltante - di condannarla a reintegrarli in servizio.

Condanne che all’esito di tali giudizi, in accoglimento totale delle nostre tesi difensive, sono state pronunciate a favore dei lavoratori che erano stati estromessi dai ranghi aziendali e che ora hanno invece la possibilità di riprendersi il loro lavoro.

Tribunale di Milano 24.02.2021_Palmisani.pdf

Tribunale di Milano 15.04.2021_Stefanizzi.pdf

Continua l’incessante attività del nostro Studio in difesa degli operatori che lavorano all’interno delle R.S.A., in favore dei quali, questa volta, si è conseguita un’importante vittoria che garantisce e garantirà a tali lavoratori di recuperare (e non farsi più sottrarre) tutte le retribuzioni non pagate dalla Cooperativa datrice di lavoro in relazione al cosiddetto “tempo di vestizione/svestizione” della divisa di lavoro.

I nostri assistiti, infatti, ogni giorno sul luogo di lavoro dovevano (e devono) vestire e svestire la divisa necessaria all’esecuzione delle loro attività di cura delle persone ricoverate in struttura, e tale vestizione e svestizione dovevano (e devono) effettuarla, per espressa disposizione del datore di lavoro,  in un luogo interno ai locali aziendali ma non vicino ai piani dove si svolgeva (e svolge) la prestazione; ciò che comportava una presenza anticipata (rispetto all’orario di inizio) e posticipata (rispetto all’orario di fine turno), che a sua volta comportava periodi temporali di presenza in servizio extra-turno necessari a vestire e svestire le divise di lavoro e tuttavia mai retribuiti.

Il nostro Studio, facendo ribadire il principio giurisprudenziale che ciò sancisce, ha dunque ottenuto una sentenza con cui il Giudice del lavoro ha condannato la cooperativa datrice di lavoro a corrispondere a tutti i nostri assistiti le retribuzioni per tutti i periodi giornalieri in cui gli stessi hanno dovuto (e dovranno), al fine di vestire e svestire le divise di lavoro, trovarsi e rimanere sul luogo di lavoro prima e dopo il loro turno.

Tribunale di Milano 13.04.2021_Cassia.pdf

Con le sentenze in questione, il nostro Studio ha conseguito un’importante vittoria in giudizio a tutela di un lavoratore di call-center, che costituisce un importantissimo precedente per le centinaia di lavoratori che si trovano nella condizione di illegittima gestione del proprio rapporto di lavoro da parte delle aziende che operano nel settore.

Il lavoratore in questione, infatti, seppure assunto con contratto di lavoro part-time non solo si era visto continuamente e settimanalmente modificare l’orario di lavoro dall’azienda, così di fatto rimanendo alla mercè del datore di lavoro senza alcuna possibilità di organizzare il proprio tempo libero anche al fine di reperire un’ulteriore occupazione e fonte di reddito (al contrario di quanto stabilisce proprio l’attuale normativa sul part-time a tutela di chi viene assunto in tal modo), ma era stato anche sotto inquadrato rispetto alle effettive mansioni svolte.

Sul punto, infatti, se da un lato il nostro assistito era stato assunto da addetto al call-center e con inquadramento nel terzo livello del contratto collettivo delle Telecomunicazioni, dall’altro lato aveva disimpegnato mansioni superiori, aventi ad oggetto non mere informazioni da dare al cliente che lo contattava, ma la personale e diretta risoluzione di problematiche gestionali che comportavano l’esercizio di proprie valutazioni e di proprie competenze idonee a pervenire all’obiettivo che l’intervento richiedeva.

Mansioni, queste, che il contratto collettivo fa rientrare nel superiore quarto livello e nella superiore qualifica di operatore di call-center.

Nel ricorso si erano, quindi, richieste, a tutela del nostro assistito e per rendere giustizia al caso concreto ed all’illegittimo comportamento del datore di lavoro, sia l’inquadramento nel superiore livello, sia la condanna al pagamento delle differenze retributive dovute per effetto di tale superiore inquadramento, sia la condanna al risarcimento del danno relativo alla continua illegittima modifica dell’orario di lavoro part-time, sia, ancora, che il Giudice determinasse la puntuale collocazione dell’orario di lavoro anche per il futuro.

Il ricorso è stato integralmente accolto, ed il lavoratore si è visto non solo riconoscere il superiore inquadramento e gli indennizzi dovuti per quanto in esame, ma si è visto anche determinare, da parte del Giudice, l’orario di lavoro che egli aveva richiesto e che ora l’azienda sarà inderogabilmente costretta a rispettare anche per il futuro.

Sentenza n. 180_2021 del 28.01.2021.pdf

Sentenza n. 394_2021 dell'11.02.2021.pdf

Sentenza n. 403_2021 dell'11.02.2021.pdf

Sentenza n. 539_2021 del 25.02.2021.pdf

Sentenza n. 612_2021 del 04.03.2021.pdf

Sentenza n. 1339_2021 dell'11.02.2021.pdf

Sentenza n. 2172_2021 del 17.09.2021.pdf

Sentenza n. 2193_2021 del 21.09.2021.pdf

Con la sentenza in questione, il nostro Studio ha conseguito un’importante vittoria in giudizio nell’importante materia degli illegittimi contratti di lavoro a termine, che sin dall’entrata in vigore della riforma del 2014 sono tornati ad essere utilizzati dal datore di lavoro allo scopo di pre-costituirsi la tanto agognata flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro, scaricando integralmente sui lavoratori ogni forma di rischio di impresa che invece il nostro ordinamento vuole in carico alle imprese che hanno bisogno di manodopera.

In particolare, la vittoria è importante perché in giudizio è stata accolta la nostra tesi per cui anche a distanza di tempo è qualificabile come rinnovo contrattuale anche quel contratto che è stipulato ex novo tra le stesse parti laddove abbia ad oggetto stesse mansioni e stesso inquadramento del precedente; cosa da cui deriva ad oggi l’applicabilità del cosiddetto “Decreto Dignità” nella parte in cui obbliga il datore di lavoro a specificare, appunto nel rinnovo contrattuale, la motivazione dell’assunzione a tempo determinato piuttosto che a tempo indeterminato, con la conseguenza che in mancanza il lavoratore/la lavoratrice interessato/a possono richiedere al Giudice l’assunzione a tempo indeterminato.

Ciò che è stato appunto da noi richiesto nel giudizio instaurato a tutela del nostro assistito e che è stato accolto integralmente dal Giudice.

Sentenza n. 2339 del 4.01.2021.pdf

Con la sentenza in questione, resa all’esito di un giudizio di opposizione instaurato dall’ex datore di lavoro contro il decreto ingiuntivo che si era richiesto (ed era stato emesso) in favore del nostro assistito, il nostro Studio ha conseguito un’importante vittoria in giudizio per l’importanza dei principi che in accoglimento delle proprie tesi giuridiche sono stati espressi nella sentenza in questione, peraltro spendibili in tutti i casi di cambio di appalto come quello interessato alla relativa vicenda.

In particolare, da un lato si è riusciti a far passare il principio per cui ogni volta che un’azienda (che abbia cessato il servizio di appalto in favore di altra azienda subentrante) licenzi il proprio personale, anche se con l’obiettivo di farlo assumere appunto dall’impresa nuova appaltatrice, lo stesso ex datore di lavoro/ex appaltatore deve corrispondere ai propri lavoratori licenziati l’indennità sostitutiva del preavviso anche in caso di contestuale riassunzione da parte della nuova appaltatrice successiva al licenziamento, e dunque anche se non vi è stata concreta disoccupazione e non vi è stato un concreto danno in tal senso, dal momento  che tale indennità non è legata ad effettivi pregiudizi di perdita di reddito, ma è dovuta per il solo fatto che il datore di lavoro risolva il rapporto di lavoro per perdita dell’appalto.

Dall’altro lato, si è riusciti a far consolidare il principio per cui, tra l’altro, ben può chiedersi il decreto ingiuntivo per il mancato pagamento di un importo retributivo anche se lo stesso non risulta da busta paga, ma dalle tabelle retributive del contratto collettivo, ovvero sia ricavabile da una semplice operazione algebrica/aritmetica per calcolarlo.

L’affermazione di questi due principi è di importanza notevole per la tutela dei lavoratori interessati a simili faccende e che sempre di più vanno incontro a comportamenti del datore di lavoro che tendono ad eludere diritti retributivi tuttavia inderogabili: se, infatti, in tal modo nessun datore di lavoro può tentare di risparmiare sul dovuto costo della risoluzione del rapporto, dovendo sempre riconoscere l’indennità sostitutiva del preavviso ogni volta che voglia o debba licenziare le proprie maestranze per i motivi sopra richiamati, ogni lavoratore potrà comunque chiedere l’ingiunzione di pagamento di retribuzioni dovute, attraverso il ricorso alle tabelle contrattuali, anche nelle ipotesi in cui il datore di lavoro volutamente non consegni le buste paga ai propri dipendenti.  Il provvedimento è stato confermato in sede di appello.

Tribunale di Milano 3.02.2021.pdf

Sentenza n. 932_2021 Corte Appello di Milano.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto una nuova importante sentenza a tutela di un assistito che si era rivolto a noi dopo che per mesi e mesi, nonostante fosse stato assunto con contratto di lavoro part-time, l’azienda datrice di lavoro aveva continuato a cambiargli l’orario di lavoro.

Lo Studio ha impugnato l’illegittimo comportamento aziendale sul presupposto che esso si poneva in grave contrasto con la normativa prevista in materia di orario di lavoro parziale a tutela del lavoratore subordinato (in particolare: gli articoli da 4 a 12 del decreto legislativo n. 81 del 2015), secondo la quale quest’ultimo ha diritto ad avere un orario di lavoro fisso, predeterminato ed immodificabile nel presente e nel futuro – così da riuscire a sapere sempre ed in anticipo  quale sarà il tempo libero che avrà a disposizione per reperire, in tale lasso temporale, altro lavoro.

Il Giudice, in totale accoglimento tanto della richieste svolte in favore del nostro assistito, quanto delle tesi giuridiche su cui le stesse sono state fondate, ha accertato l’illegittimità del comportamento del datore di lavoro e lo ha condannato a risarcire il danno subito dal nostro assistito in conseguenza dei continui cambiamenti di orario subiti.

sentenza n. 1302 del 15.09.2020.pdf

Il nostro Studio ha ottenuto importanti sentenze a tutela di lavoratori che si erano rivolti a noi dopo che erano stati lasciati a casa dal proprio datore di lavoro alla scadenza di un rapporto di lavoro a tempo determinato. Nello specifico abbiamo ottenuto dal Giudice sia la conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro a termine, sia l’immediata reintegrazione in servizio del lavoratore.

Il contratto a termine impugnato era stato giustificato dall’impresa in relazione ad un’esigenza sostitutiva.

Le nostre censure si sono concentrate principalmente sull’assenza del documento di valutazione dei rischi, nonché sull’insussistenza dell’esigenza sostitutiva dedotta dal datore di lavoro nel contratto.

Il Giudice, in totale accoglimento tanto della richieste svolte , quanto delle tesi giuridiche su cui le stesse sono state fondate, ha accertato la nullità dei contratti a termine in virtù della ricorrenza di entrambi i suindicati motivi di impugnazione e, come accennato, una volta dichiarata l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ha ordinato all’azienda di reintegrare immediatamente in servizio i lavoratori.

sentenza n. 1221 del 31.08.2020.pdf

Tribunale di Milano 19.01.2021.pdf

La sentenza che vi segnaliamo è di notevole importanza non solo e non tanto per il merito della vicenda, quanto, invece e soprattutto, per i principi processuali che essa afferma.

Nella causa in questione, il lavoratore - socio di cooperativa ed addetto ad attività di assistenza e di cura alla persona degli anziani nel centro di accoglienza (RSA) in cui egli operava - era stato licenziato per avere asseritamente istigato alcuni suoi colleghi iscritti alla sigla sindacale di cui era delegato, in particolare per il tramite di affermazioni contenute in un messaggio whatsapp loro inviato, a prendere in considerazione la possibilità di non rendere più la prestazione lavorativa se questa avesse sforato il previsto orario di lavoro notturno.

Ragione, questa, per cui la cooperativa aveva provveduto sia al suo licenziamento sia alla sua espulsione dai ranghi sociali (estromettendolo dalla qualità i socio).

La causa, dunque, non era di agevole portata soprattutto per via del fatto che, come noto, per il lavoratore di cooperativa che viene sia licenziato che estromesso dai ranghi sociali non è scontata la possibilità di poter ottenere la reintegra sul luogo di lavoro (e ciò sia per come è formulata la normativa di cui alla legge 142/01, sia per una sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione del 2017 da cui, a prima lettura, sembrerebbe trarsi tale impossibilità), pure dubitandosi, da parte di alcuni interpreti, che sia il Giudice del Lavoro a doversi pronunciare su una simile controversia e sostenendosi che invece debba essere il Tribunale delle Imprese a doverlo fare.

E tuttavia, il nostro Studio non solo è riuscito a far ribadire il principio processuale per cui in cause in cui l’esclusione del socio ed il suo licenziamento siano motivati sullo stesso presupposto di fatto è il Giudice del Lavoro a doversi pronunciare sull’impugnazione di entrambi, ma è riuscito anche a far disattendere quanto incidentalmente affermato dalla Suprema Corte di Cassazione nella sopra richiamata sentenza ed a far affermare il principio per cui nel caso in cui tanto il licenziamento, quanto l’esclusione da socio del lavoratore interessato siano considerati infondati ed illegittimi, la tutela non può che essere quella della reintegrazione in servizio (sulla base della corretta interpretazione da darsi alla stessa legge 142/01 per come argomentata e ricostruita proprio nel nostro ricorso).

Nel merito, l’infondatezza dei provvedimenti di espulsione datoriale è stata ricavata dal fatto che al concreto contenuto dei messaggi del nostro assistito non poteva in alcun modo essere attribuito il carattere dell’istigazione a commettere illeciti.

Tribunale di Milano 13.03.2020.pdf

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Il nostro Studio ha ottenuto una importantissima vittoria nel campo dei contratti a termine sia per il contenuto della sentenza (che di fatto accoglie le innovative tesi argomentative da noi sviluppate a riguardo), sia per la materia affrontata (che riguarda la categoria dei precari mantenuti in servizio con plurimi contratti a termine infine non rinnovati, con la conseguente espulsione dal ciclo produttivo della lavoratrice/lavoratore interessata/o), sia perché tale sentenza interviene nell’applicazione di una normativa assolutamente nuova, e cioè quella che nel Job’s Act (da ultimo riformato dal c.d. Decreto Dignità) disciplina la fattispecie del cumulo dei contratti a termine (prima con assunzione diretta e poi con assunzione per il tramite di Agenzia di somministrazione).

In particolare, per quanto interessa, la lavoratrice era stata assunta e poi mantenuta in servizio dapprima con un contratto a termine diretto, ed in seguito con più contratti di lavoro a termine in somministrazione, il tutto però a superamento dei 36 mesi quale originario limite massimo di utilizzo di tali contratti a termine.

Lo Studio aveva, pertanto, sottoposto al Giudice del Lavoro, tra le altre, la tesi argomentativa per cui da un lato la disciplina del Job’s Act avesse sostanzialmente lasciato integra ed intatta quella del decreto legislativo (n. 368/01) che l’aveva preceduto a regolamentazione della questione del superamento dei 36 mesi (e che pertanto tutti i contratti stipulati sotto la vigenza dell’una e poi dell’altra normativa andassero per ciò cumulati nel calcolo in questione), e per cui dall’altro lato per concretizzare il superamento di tale tetto massimo ben potevano e dovevano sommarsi sia i mesi di lavoro eseguiti con contratto a termine direttamente intercorso con il datore di lavoro, sia i mesi di lavoro eseguiti sotto contratto a termine intervenuto con l’Agenzia di somministrazione.

Il Tribunale del Lavoro di Milano ha accolto tale approccio interpretativo e, valutato nel caso concreto il superamento dei 36 mesi (per il tramite di entrambi i tipi di contratto a termine in questione), ha convertito il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, condannando l’azienda sia a reintegrare in servizio la lavoratrice, sia a pagarle l’indennità risarcitoria prevista dallo stesso Job’s Act.

La sentenza è stata confermata anche in secondo grado.

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Sentenza n. 309 del 3.03.2020.pdf

Sentenza n. 588_2021 Corte Appello Milano.pdf

Abbiamo assistito due lavoratori già impiegati come team leader in un call-center i quali, in seguito ad un cambio di appalto che ha interessato la società loro datrice di lavoro (che nella gestione del relativo servizio è stata sostituita da altra società che le è subentrata), sono stati licenziati insieme ad altri loro colleghi e non hanno in seguito voluto essere riassunti da tale società subentrante che proponeva condizioni contrattuali inferiori rispetto a quelle del precedente rapporto.

Nonostante ed a prescindere dalla normativa di legge e di contratto collettivo prevista nel settore delle telecomunicazioni, la quale, ad una prima lettura, sembrava dare ai lavoratori interessati esclusivamente la possibilità di richiedere l’assunzione nei confronti dell’impresa subentrante e non anche tutele nei confronti del datore di lavoro/impresa uscente dall’appalto, abbiamo comunque proceduto ad impugnare i licenziamenti nei confronti di quest’ultima sia perchè disposti in violazione della normativa sui licenziamenti collettivi (la legge 223/91), sia perché comunque disposti in violazione della normativa sui licenziamenti individuali per motivi economici.

Ebbene, con un provvedimento che a quanto consta è il primo emanato nel settore delle telecomunicazioni abbiamo fatto affermare il principio per cui anche in tale settore (quando i licenziamenti siano almeno 5) deve applicarsi la procedura per i licenziamenti collettivi di cui alla legge 223/91 per tutti i lavoratori licenziati dall’impresa uscente e non assunti dall’impresa subentrante, e ciò a prescindere dal fatto che l’assunzione di tali lavoratori da parte dell’impresa subentrante derivi da una loro scelta.

Affermato tale principio, e valutata la non applicazione nel caso di specie della procedura in questione, il Giudice ha dichiarato illegittimi i licenziamenti dei nostri assistiti ed ha disposto la loro reintegrazione in servizio, con pagamento del risarcimento del danno previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e costituito da tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento alla data di effettiva reintegrazione. 

ordinanza trib. milano 16.12.2019.pdf

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L'opposizione presentata dall'azienda è stata rigettata e l'ordinanza di prime cure confermata con la sentenza che qui sotto vi alleghiamo.

sentenza n. 788 del 15.06.2020.pdf

Abbiamo assistito due dj speacker radiofonici, che avevano lavorato ininterrottamente per dieci anni per una nota mittente/radio leader in Italia per ascolti, alternandosi nella conduzione di vari programmi di volta in volta assegnatigli.

I dj erano stati inquadrati con una serie di contratti di lavoro autonomo che si erano succeduti senza alcuna interruzione nella regolamentazione del rapporto fino a quando la società che gestisce la radio non li aveva lasciati a casa con comunicazione di recesso dall’oggi al domani.

I dj si sono quindi rivolti al nostro Studio e – una volta falliti i tentativi di composizione bonaria – abbiamo proposto il ricorso al giudice del lavoro perché lo stesso accertasse che, in ragione delle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, era in realtà intervenuto un rapporto di lavoro subordinato.

Ciò perché, in particolare, al di là dello pseudo-fattore artistico dell’attività di conduzione richiestagli, la stessa si era sempre in concreto svolta sulla base di:

- un rigido inserimento organico nel ciclo produttivo dell’azienda;

- prevalenza degli interventi etero determinati dall’emittente (per tipo e contenuto dell’intervento);

- tempi e durata di intervento rigidamente regolamentati dal “clock” della radio stessa

- scaletta del programma predefinita dall’emittente radio;

- controllo da parte dell’emittente radio sui contenuti e sui tempi degli interventi del dj, tramite appositi sistemi digitali di produzione: in particolare, il computer con gli schermi su cui venivano fatti scorrere i contenuti dell’intervento che il dj doveva leggere (c.d. “gobbo”) e la strumentazione che segnalava quando il dj dovesse intervenire e quanto tempo avesse per l’intervento (c.d. “clock”).

°°°°

All’esito del primo grado di giudizio, la causa è stata vinta e al dj, che era stato inquadrato come lavoratore autonomo, abbiamo fatto ottenere l’accertamento della natura subordinata del suo rapporto di lavoro e la reintegra nel posto di lavoro con diritto al risarcimento del danno nonché il pagamento delle spese legali.

Nell'altro caso è stato necessario proporre opposizione all'ordinanza che ha definito la prima fase del rito fornero: all'esito di questo, con sentenza, hanno trovato accoglimento tutte le nostre pretese.

Questa vittoria è innanzitutto una vittoria contro chi, al solo scopo di cercare di abbattere definitivamente ogni residua tutela spettante a questo tipo di rapporto, cerca da anni di raccontare che le nuove tecnologie imporrebbero un superamento dei vecchi e classici schemi di inquadramento dei rapporti di lavoro.

E’, infatti, una vittoria che vale doppio perché sbugiarda la comunicazione narrativa con cui le imprese, sulla base dell’adagio e dell’assioma per cui i nuovi strumenti di lavoro (digitali e/o tecnologici) imporrebbero nuovi tipi di rapporto da regolamentarsi con nuovi schemi giuridici, e non più con quelli regolanti il modello di produzione fordista, hanno con ciò cercato di giungere all’abbattimento della “subordinazione” intesa come ultimo e residuo spazio di minima tutela i lavoratori.

Ed invece, così come le classiche categorie di pensiero politico (destra e sinistra) sono ancora oggi più che valenti ad identificare i contenuti di pratica politica che ogni forma di governo declina quotidianamente, così anche gli schemi storicamente e classicamente usati per capire se un lavoratore poteva considerarsi subordinato od autonomo (assenza di rischio di impresa, percepimento di retribuzione fissa e predeterminata, orario di lavoro pre-determinato dalle esigenze di produzione aziendali) sono ancora oggi più che in grado, resistendo alla volontà di un loro abbattimento per meri scopi cari alla classe imprenditoriale, di identificare in quale categoria inquadrare i lavoratori che operano nell’attuale contesto socio-economico.

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Ordinanza Tribunale Monza del 29.05.2019.pdf

Sentenza C.A. Milano n. 553_2020.pdf

La sentenza del Tribunale di Monza del 5.03.2020 è stata oggetto di reclamo da parte del datore di lavoro avanti la Corte d'Appello di Milano.

Ebbene, la Corte d'Appello di Milano, nella sentenza che qui sotto vi alleghiamo, ha rigettato il reclamo e confermato la sentenza resa dal Tribunale di Monza all'esito della fase di opposizione.

Sentenza Monza n. 123_2020 del 05.03.2020.pdf

Se, infatti, è vero, come è vero, che ogni schema di inquadramento di un dato fenomeno umano sotto quella determinata categoria, per ciò elaborata, abbisogna dell’ovvia declinazione del teorico nel pratico, ossia della verifica della sussistenza di tutti gli elementi teorizzati per l’inquadramento in questione, allora è vero che è sufficiente, a prescindere dal modo in cui il capitale articola la sua produzione, capire se in un dato ambito produttivo possono o meno ricavarsi gli elementi tipici della subordinazione per giungere alla conclusione che il rapporto non è autonomo!

Ed è proprio ciò che si è fatto nel caso di specie, andando al di là del modo di produrre dell’emittente/radio, ed anzi proprio partendo dal sistema digitalizzato con cui si elaborano e strutturano, tanto i programmi che vanno in onda, quanto la prestazione del dj che li conduce.

Siamo giunti a comprendere e a far accertare al Giudice che i dj nostri assistiti erano figure molto diverse da quella del lavoratore che autonomamente organizza la propria conduzione radiofonica. Ma piuttosto una figura per nulla diversa da quella di ogni altro lavoratore subordinato che è organicamente, rigidamente ed indispensabilmente inserito, come una piccola rotellina di un ampio ingranaggio, nel ciclo produttivo aziendale.

Una vera e propria subordinazione seppure concretizzatasi attraverso un sistema digitalizzato (verrebbe da dire moderno) ed un ufficio direttivo artistico che hanno sempre stabilito cosa dire (contenuti dell’intervento del dj), il momento esatto in cui farlo e per quanto tempo: il tutto rigorosamente scandito e dettato da timer e monitor del pc.

Tribunale di Monza Sentenza n. 225_2023.pdf

Nel giudizio conclusosi positivamente con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione qui pubblicata assistevamo un folto gruppo di lavoratori i quali, già dipendenti da un’azienda leader nel settore delle telecomunicazioni, erano stati ceduti ad un’altra azienda di servizi nell’ambito di un asserito trasferimento di un ramo di azienda che tali società avevano tra di loro identificato.

Da subito il nostro studio si era reso conto che l’operazione di trasferimento che coinvolgeva i lavoratori nostri assistiti era illegittima, non esistendo, nel caso di specie, alcun ramo di azienda autonomo richiesto dalla legge nazionale (e precisamente dall’articolo 2112 del codice civile) e dalla legge comunitaria (la direttiva n. 50 del 1998) per poter trasferire, con esso, anche i rapporti dei lavoratori che operino all’interno dello stesso.

Ebbene, nonostante sia in primo che in secondo grado il ricorso dei nostri assistiti sia stato rigettato, giustizia è stata fatta in terzo grado e ad opera della Corte di Cassazione, la quale, aderendo alla nostra prospettazione ed accogliendo le tesi del nostro ricorso (che in buona sostanza altro non conteneva se non quelle stesse argomentazioni e tesi giuridiche già prospettate nei precedenti gradi di giudizio), accertava la violazione da parte dell’azienda ex datrice di lavoro delle disposizioni delle normative sopra richiamate (confermando che alcun ramo di azienda sussisteva nell’operazione effettuata nel caso di specie) ed annullava il trasferimento dei nostri assistiti presso l’azienda di servizi.

La vicenda qui trattata non solo è di particolare importanza perché trattata e definita da una delle sentenze della Suprema Corte che per prime si sono poste in quel solco giurisprudenziale che ha completamente tacciato di illegittimità operazioni come quella posta in essere nel caso di specie, ma anche e soprattutto perché costituisce una grande lezione per chiunque si appresti a far valere in giudizio un proprio diritto: la lezione per cui non è mai detta l’ultima parola, e che se si ha ragione, la ragione prima o poi può sempre essere premiata ed accertata.

Insomma, per dirla come il vecchio maestro/allenatore di calcio Vujadin Boskov “partita finisce quando arbitro fischia”.

Cassazione 19.01.2017 n. 1316.pdf

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Il Giudice ha accertato sia in primo grado sia in appello che il licenziamento intimato alla lavoratrice era illegittimo...leggi di più su Corte d'Appello Milano n. 1811 del 7.11.2017

 

 

 

Al dipendente trasferito da Torino ad altra sede di lavoro (Orbassano) distante circa 30 km per “inderogabili esigenze tecnico-organizzative”... leggi di più su Tribunale di Torino n. 2140 del 16.11.2017.

 

 

 

Ad un gruppo di lavoratori licenziati nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo abbiamo fatto ottenere la reintegra nel posto di lavoro, il risarcimento del danno e la condanna del datore di lavoro al pagamento delle spese legali...leggi di più su Tribunale di Milano n. 31042 del 5.12.2017.

Sentenza Tribunale Milano n. 3282_23.pdf

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INTESTAZ. 1

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